sabato 16 agosto 2014

Atlas - Capitolo II

Leggi "Atlas - Capitolo I" qui.


Caro amico, la storia di Atlas finalmente continua. E serve un piccolo disclaimer che, mio malgrado, un po' spoilera, ma le regole, so' regole.
1 – Ogni riferimento a persone realmente esistite o fatti realmente accaduti è assolutamente involontario.
2 – Sono contenuti passi che potrebbero urtare la sensibilità di alcuni e/o sono riservati ad un pubblico adulto. Continuando la lettura, dichiarate di essere maggiorenni liberando gli autori da ogni responsabilità.

Kabul, 7 Luglio 2003

Fui costretto a fermarmi. Ordinai ai tre mitraglieri di posizionarsi nelle case adiacenti all'uscita nord di quel vicolo. Un altro quarto di miglio verso sud e saremmo arrivati nella zona di atterraggio dell'elicottero per l'estrazione.
<< Qui è il sergente Cole, abbiamo un uomo a terra. Un cecchino ci impedisce di proseguire. Richiedo soccorso immediato! passo... >>
<< Signore, l'elicottero è già partito. La logistica non ha previsto squadre di supporto. passo... >>
Eravamo soli, con poche munizioni e una dozzina di talebani che presto ci avrebbe raggiunto. L'unica opzione era far fuori quel cecchino. Chiesi al soldato all'altro capo della radio di restare in attesa, indicai al granatiere di lanciare un fumogeno alla fine della strada. Un improvviso punto rosso sul visore termico svelò la posizione del cecchino mentre colpiva in pieno la sedia che gettai all'interno del gas.
<< Faccia avvicinare l'elicottero dal lato est, fuoco al terzo piano dell'edificio. Poi entriamo e neutralizziamo l'obiettivo, passo... >>
Passarono alcuni secondi, l'operazione andava convalidata,
<< Ricevuto, signore. L'elicottero arriverà fra tre minuti. >>

La guerra mi ha ridato la vista, ma avrei preferito restare cieca dalla vendetta e dall'odio. Più uccidevo e più mi rendevo conto che l'unica differenza fra la carne che colpivo e quella di mio padre e mio zio, morti sotto le macerie delle torri, era la mente a guidarla. Una mente comunque umana.
Eravamo bloccati in quella strada da qualche minuto, uno dei miei compagni era stato ferito. Il nostro capo squadra era stato promosso da poco, non tutti si fidavano: da chi diceva che sarebbe stato meglio se avesse fatto l'ambasciatore, a chi lo tacciava di essere il figlio raccomandato di un generale. Ero alla mia terza missione, avevo paura. Tutti l'avevamo e in quel momento ogni pregiudizio sembrò sparire. Gli occhi ne tradivano la preoccupazione, ma il sergente era determinato a farci uscire di lì vivi.
<< Soldato Lewis, con me! >>
Strinsi l'M4. Sarei dovuta entrare nell'edificio. In due, in silenzio. Con altre dieci vite sulle nostre spalle. Sentii il flebile rombo di un elicottero in lontananza, un istante dopo sibili e decine di vetri andare in frantumi. Abbassai la maschera sul mio viso, un altro fumogeno. Nessun pensiero, solo il mio respiro e il peso delle armi sulle mie gambe. Interruppi la corsa sbattendo contro il portone, la prima tappa. Il sergente Cole era ad un passo di distanza. Sparai sulla serratura, lui spalancò con un calcio. Osservai l'ingresso, “libero!”, scale, “libero!”, pianerottolo, scale, “libero”, pianerottolo. “Ferma!” tuonò il sergente. Voltai lo sguardo sui miei passi, una delle porte si stava aprendo. Due occhi pieni di odio puntarono l'arma verso di me. Avevo il fucile in braccio, pronto a sparare, ma non feci fuoco. Non ci riuscivo. Non avrei potuto. Poi un colpo esplose dalla serie di scale più in basso. Il sergente lo uccise. Avrà avuto 11 o 12 anni. Una mano coprì i miei occhi prima che vedessero il suo corpo accasciarsi al suolo.
<< Avanti, Janice, avanti! >> parole che pretendevano invano di mantenere alta la concentrazione, non so se la mia o quella di chi le pronunciava.
Corsi barcollando fino alla stanza del cecchino. Era stato colpito da uno dei proiettili dell'elicottero. Il sergente Cole guardò la macchia di sangue ormai estesa sul pavimento.
<< Cecchino neutralizzato – disse alla radio con voce sempre più flebile e rotta – procedere verso il punto di estrazione. >> poi cadde in ginocchio conscio di aver ucciso un bambino e che in quella stanza non avrebbe ottenuto alcuna redenzione.

Non cenai. Vomitai due volte, acqua. Chiesi al generale di avvisare Claire, non volevo parlarle. Ero terrorizzato dal sentire la voce di mio figlio chiamarmi o anche solo ridere. Stavo davvero proteggendo lui e il suo futuro? In oltre un anno avevo visto decine di bambini soldato mutilati o uccisi. Mi raccontavo che non volevo la stessa sorte per Samuel, che a quell'età dovevo garantigli gioco, istruzione e ancora gioco. E che l'unico modo per farlo era combattere fino all'ultimo una guerra iniziata con uno degli atti terroristici più crudeli della storia, in casa nostra. Che quelli non erano bambini, ma nemici come gli altri, istruiti e pronti al sacrificio pur di uccidere. Fino a quel momento, però, non ero mai stato io a premere il grilletto.
Era notte fonda quando mi chiese di entrare. Eravamo gli unici svegli, oltre le sentinelle. Non ero sicuro di volerla vedere.

<< ...ho visto la luce accesa, vorrei parlarle. – non sapevo esattamente cosa gli avrei detto, ero viva grazie a lui e per colpa sua continuavo a rivedere quell'attimo – Se la disturbo... >>
<< No... no. Entri pure. >> mi interruppe lentamente.
Era seduto su uno sgabello. Un bicchiere d'acqua in mano, pieno. Lo sguardo era basso, fisso sulla lanterna da campo. Sospirò, e si alzò voltandosi verso di me.
<< Puoi parlare liberamente, non sono in vena di gradi e formalità. >>
Era già capitato che ci parlassimo senza convenevoli, lo permetteva a tutta la squadra quando possibile, pensava creasse coesione successivamente, sul campo. Esitai un attimo.
<< Volevo dirti che il caporale Willis sta bene, l'intervento è riuscito. Sarà in congedo per un po'... e... mi dispiace. >>

Tratteneva con difficoltà le lacrime. Aveva solo 21 anni e qualunque motivazione l'avesse spinta ad arruolarsi era stata di colpo cancellata. E a cancellarla ero stato io, assieme alle mie, assieme a quella vita. Non riuscii a dirle nulla. Mi limitai ad un cenno con la testa... poi fu sola rabbia, un bicchiere scaraventato a terra e un urlo soffocato.
<< Non avevo scelta! sai che non avevo scelta?! dov'è la scelta? uccidere un bambino o lasciare che uccida te e altre 10 persone? che scelta è? sono entrambe sbagliate, tutto in questo posto di merda è sbagliato! >>

Era distrutto. Provai ad avvicinarmi. La mia mano sulla sua spalla divenne presto un abbraccio.
<< Non avresti dovuto vedere nulla di tutto questo, Janice, né tu né nessun altro. Non c'è alcuna ragione... >> si bloccò ancora.
<< Atlas, io... >>
Non so se sapesse più chi fossi, io l'avevo dimenticato. Avevo dimenticato ciò che era successo, il motivo per cui ero lì, dove mi trovavo. Ignoravo i colpi in lontananza, i bagni di sangue che c'erano stati e che sarebbero continuati. Stavo male e l'improvviso calore delle sue labbra sulle mie, chiunque egli fosse, leniva quel dolore. Risposi con forza, aggrappandomi alle sue spalle. Sentivo le sue mani esplorare i miei fianchi e mi ritrovai a stringere i suoi. Non potevo aspettare, dovevo sentirmi viva, subito. Infilai una mano nei suoi pantaloni, mentre con l'altra li sbottonavo. Un suo braccio mi strinse più forte, l'altro scese ancora e sentii le sue dita bagnarsi mentre, decise, accrescevano il mio desiderio. Lo spinsi su quello sgabello, le nostre labbra si separarono per pochi, troppi, istanti. A difendermi rimase solo una maglietta, aprii le gambe sulle sue e lasciai che entrasse dentro di me. Brividi mi attraversavano ad ogni spinta, mentre le sue mani possedevano le mie gambe, i miei fianchi, i miei seni, ogni centimetro di pelle e i nostri respiri non smettevano di unirsi affannati. Poi sentii un forte calore invadermi. Ero viva.


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