Leggi il primo capitolo delle Storie qui.
Leggi il secondo capitolo delle Storie qui.
Quell’inverno era il più lungo
che egli ricordasse. Gli alberi erano ancora spogli, e il vento sferzava da
mesi le superfici innevate e i poveri viandanti che si affacciavano alla strada
maestra, costretti ad arrancare assieme alle loro giumente. La grande pianura
biancheggiante che circondava la taverna del Cavallo Mangiato pareva la
rappresentazione stessa della Morte; qualunque fosse il suo volto, quella
natura prigioniera e tormentata ne incarnava l’anima.
Ma ciò che lo scoraggiava, più di
tutti quei tangibili segni, era il fatto che la sua proverbiale allergia
primaverile non s’era ancora manifestata. Si toccò il naso, provò a titillare
il palato con la lingua, senza riuscire a strappare neanche uno starnuto. Non
che la cosa gli dispiacesse: l’allergia lo costringeva sempre a cattività
indesiderate, a rinchiudersi in luoghi claustrofobici riparati dai raggi del
sole e dai pollini. Tuttavia, quell’apparente vantaggio personale dimostrava la
lontananza della bella stagione.
Si portò le mani alla bocca e
alitò un po’ di calore sulle sue dita anziane e rugose. Le prime luci dell’alba,
colorate ma prive di energia alcuna, s’irradiavano dalla cima del monte
Tempesta. Egli osservò la coltre di nebbia che avrebbe nascosto il pinnacolo
ancora per poco. Nel giro di un’ora la valle intera sarebbe stata illuminata e
la vita, seppur zoppicante per il lungo inverno, si sarebbe risvegliata.
Era ora di partire, ma preferì
chiudere gli occhi e concedersi un altro attimo. «Chi dorme non piglia pesci.»
gli ripeteva il padre. Non aveva mai capito come si potessero prendere pesci
nella zona in cui era cresciuto, montuosa e senza ruscelli nel raggio di intere
giornate di marcia. Ma aveva poca importanza, pensò, il messaggio del genitore era
chiaro: intendeva che, se i pesci ci fossero stati, non li avrebbero mica
pescati dormendo. Inoltre, nell’impossibilità di trovare i pesci, la stessa
idea poteva estendersi alla selvaggina. Lepri, caprioli, camosci, volpi… nessun
animale poteva essere cacciato nel sonno. Del resto, di cacciatori sonnambuli
non aveva mai sentito parlare. Però aveva sentito di pescatori che
s’addormentavano con la lenza penzolante. Vabbè, l’eccezione che confermava la
regola. Ah! Com’era saggio suo padre! Nel villaggio in cui era cresciuto, un
assembramento di quattro casupole all’ombra della Montagna Solitaria, nell’estremo
Sud del mondo, tutti riconoscevano suo padre come il Sapiente, ed egli per
validare la diceria s’era fatto crescere una barba lunghissima. Reggeva il
consiglio del villaggio, elaborava la strategia di preservazione delle derrate
alimentari, così che nessuno potesse soffrire la fame in nessun momento.
Presenziava alle unioni tra i compaesani, augurando la felicità della coppia ed
auspicando, ad ogni prima notte, che l’anno portasse un raccolto migliore per
tutti. Lo ricordava, seduto alla veranda della casetta di famiglia, a giocare
con la sua barba attorcigliandoci un dito e poi sbrogliandolo, metafora della
vita che crea i problemi dai quali e nei quali occorre sapersi dimenare per
ritrovare la libertà.
«Ah, com’era saggio mio padre!»
esclamò, tirandosi ad un ramo gelido per alzarsi. Scosse il deretano, che per
le asperità e il freddo del suolo s’era atrofizzato. Puntò di nuovo il monte
Tempesta, maestoso oltre la nebbia. Si sentì come quella roccia: solido, capace
di ergersi all’infinito, ma comunque soggetto alla nebbia di quei tempi bui.
Rassettò il mantello, controllò che la sua barba, azzimata in onore e ricordo
del padre, fosse presentabile, ed imboccò il sentiero che portava alla taverna
del Cavallo Mangiato.
Come ogni giorno, la taverna
pullulava di visitatori, per la maggior parte perdigiorno locali, tuttavia
sempre più spesso si presentavano forestieri. Il Regno del Panino era in
fermento, le forze magiche erano irrequiete e quelle militari si stavano
riorganizzando. Qualcosa di terribile stava giungendo… le ombre si
avvicinavano, silenziose, come sempre, pronte a colpire dopo aver creato una
quiete apparente. Egli strinse i pugni. Rugosi e callosi, ma pieni di energia.
Le vene gli si gonfiarono. Una forza sovrumana cominciò a scorrergli nel
sangue, partendo dal cuore e lambendo ogni terminazione del suo corpo,
avvolgendolo, proteggendolo, cavalcando ogni muscolo ed ogni tessuto, fino a
provocargli un fastidioso prurito alla schiena che ruppe l’attimo. Tentò di
grattarsi ma la flaccidità delle sue membra non glielo permise. «Devo fare più
allungamento!» rimproverò a se stesso. Il fisioterapista gli aveva consigliato
di eseguire una paio di esercizi ogni giorno appena sveglio, ma per pigrizia
non lo aveva mai fatto. Mentre si contorceva nel vano tentativo di raggiungere
l’epicentro del prurito con le unghie, passò l’oste della taverna.
«Buongiorno, mastro Cial!» lo
salutò questi. Indossava una calzamaglia ed un panciotto tenuto stretto da una
cintura di pelle, avviluppata dall’ingombrante pancia che straripava dal lato
inferiore e superiore increspando le vesti.
«Buongiorno, mastro Krot.»
rispose ruotando di trecentosessanta gradi con il gomito destro a contatto con
la bocca. «Se non le dispiace mi piacerebbe approfittare degli ospiti della
Taverna anche stamattina…»
«Si figuri, faccia pure mastro
Cial. Anzi, dovrei ringraziarla, ci sono clienti che vengono apposta per
giocare con lei.» Poi, accorgendosi che il vecchio barbuto continuava a
dimenarsi come un’anguilla che non riesce a fare l’uovo, gli chiese «Sta bene?»
«Sono solo alle prese con un
grattacapo, o meglio un gratta-spalla. Grazie del pensiero.» rispose. Proprio
in quel momento riuscì a procurarsi un po’ di sollievo. «Ahhhh!»
L’oste aggrottò il sopracciglio e
si congedò. «Le auguro buona giornata, mastro Cial.»
Egli ricambiò con un cenno del
capo. Mastro Krot era un brav’uomo e gestiva la taverna del Cavallo Mangiato da
più di vent’anni. Aveva una figlia, Lisa, che l’anno prima si era aggiudicata
il premio di Miss Cavalla per la sua incredibile bellezza, i suoi occhi verdi e
profondi messi in risalto dalla chioma nerissima, sempre raccolta in una lunga
treccia. Svariate volte la figlia di Krot, che serviva come cameriera
nell’attività del padre, era diventata il pretesto per le solite risse da
taverna in cui un paio di bulli cercavano di conquistare il cuore della dama
lanciandosi carpacci a destra e a manca.
Eh, la gioventù. Un’epoca per lui
lontana, il cui ricordo gli straziava ogni volta il cuore. Quando aveva l’età
di Lisa, un gruppo di uomini sconosciuti lo aveva strappato alla sua famiglia,
con il consenso di suo padre, per portarlo nella regione delle Grandi Cave,
dove era stato addestrato duramente. «Sei il predestinato» gli ripeteva il Gran
Maestro delle Cave, «da te dipenderà il futuro del nostro mondo». Tutti gli
avevano instillato quest’idea di essere l’eletto che doveva, senza possibilità
di scelta, salvare il mondo conosciuto.
«Mastro Cial, insomma, vuole
starsene tutto il giorno fra le nuvole, o cominciamo a giocare?» gli chiese un
giovanotto ben vestito e con un paio di baffetti così curati da essere
ridicoli.
“I baffi buffi”, pensò egli
sorridendo. «Giochiamo allora!» esclamò, occupando uno dei tavolini della
veranda per cui mastro Krot gli aveva concesso il permesso. Quando fu seduto
assieme al giovanotto baffuto, portò la mano destra sotto la lunga tunica e ne
estrasse tre coppe in legno di buona qualità, non molto capienti per la birra o
l’idromele ma abbastanza per una dose letale di cianuro. Le poggiò sul tavolo
capovolte. Con la mano sinistra, invece, indagò più a lungo fin quasi a
toccarsi le parti basse e, di fronte all’imbarazzo del giovane baffuto, tirò
fuori una pallina rosa e la lasciò rimbalzare sul legno accanto ai bicchieri.
«Prendila.» disse al giovanotto
che, seppur restio e con una smorfia di ribrezzo, la strinse tra la punta
dell’indice e quella del pollice.
«Mettila sotto una delle coppe e
cominciamo.»
Il vecchio rimescolò i
contenitori all’impazzata. Gli occhi del giovane s’incrociarono più volte, e
più volte fu costretto a massaggiarsi le pupille e le tempie.
«Adesso scommetti.»
Il baffutello osservò
attentamente la disposizione delle coppe sul tavolo. «Dieci carpacci su quella
centrale!»
Il vecchio sollevò quella centrale
rivelando il vuoto. «Mi dispiace, hai perso. Dieci carpacci! Riferisci a mastro
Krot.»
L’altro s’alzò, intristito, e si
congedò.
«Nessuno ha mai vinto! Allora,
chi altri vuole tentare la sorte contro un povero, ancora abile vecchio?»
domandò passando in rassegna i visi degli astanti.
«Io.» affermò un uomo robusto di
bassa statura, che si fece avanti tra i cigolii dell’armatura e gli
scricchiolii della pavimentazione della veranda. «Vediamo cosa riesco a fare
contro… un povero vecchio!» aggiunse sogghignando. Alle sue spalle
campeggiavano altri due ceffi brutti quanto lui e come lui protetti da armature
massicce.
Egli sentì puzza di guai.
Silenzioso, rimescolò le coppe nascondendo la pallina. «Avanti, faccia la sua
puntata.»
Il cavaliere disse senza esitare «Dieci
cadaveri sulla coppa a sinistra!»
Il vecchio si guardò attorno. La
reazione degli ospiti della taverna fu di totale spaesamento. Riconobbe sui volti
la paura. Nessuno di loro sapeva combattere: si trattava perlopiù di contadini
e mercanti, innocua gente di Valle Tempesta. La guerra non aveva mai raggiunto
quei luoghi bucolici e carpaccici, e la popolazione era inerme. Invece i tre cavalieri,
con le loro armature, i corredi d’arme e i ghigni bestiali, sembravano affamati
di sangue. Scrutò meglio lo stemma intagliato sugli spallacci: v’era
tratteggiata la sagoma del Signore Oscuro Junior col pollice alzato ed un
sorriso a trentadue denti, anzi trenta perché quelli del giudizio inferiori
glieli avevano tolti. “Mercenari di Oscar”, si disse egli.
«Allora, vecchio! Ho detto dieci
cadaveri sulla coppa a sinistra! Che aspetti??» urlò il cavaliere sbattendo le
mani sul tavolo. Le donne della taverna abbracciarono i bambini per tenerli al
sicuro.
«Non posso accettare.» rispose
egli con calma. «Non posso scommettere dieci cadaveri, mi dispiace. Voi siete
soltanto in tre, e nel caso in cui vincessi mi occorrerebbero altri sette
gradassi come voi.» Fissò il cavaliere negli occhi ed intravide la rabbia
incontrollata che veniva a galla.
A quell’udire, Mastro Krot
accorse supplicando il robusto ospite di non dare ascolto alle parole di un
vecchio svitato. Invece il cavaliere esplose in una fragorosa risata. Scambiò
un cenno d’intesa coi compari e scaraventò mastro Krot a terra roteando il
massiccio braccio. «E tu credi, oste, d’impietosirmi? Noi guerrieri dell’Oscuro
non proviamo alcuna pietà!» Rovesciò il tavolo e le coppe. La pallina rosa
rimbalzò per qualche metro fino a scomparire dietro un cespuglio. «E tu,
vecchio, te la farò pagare per quello che hai detto! Io sono la legge qui!»
Egli rimase seduto e con lo
sguardo fisso. «Non abbiate paura gente, sta solo scherzando. Mi pare di aver
sentito dire che alla corte di Oscar tu faccia il buffone, non è vero?» gli
chiese.
L’altro sguainò la spada e gli si
avventò contro senza indugiare oltre. Fu allora ch’egli schioccò le dita
fermando il tempo. La sagoma del cavaliere rimase a mezz’aria e così la spada.
I volti di tutti si congelarono in un’espressione di ansia. Mastro Krot era
immortalato nell’atto di rialzarsi dalla caduta: la pancia abbondante gli
impediva di ritrovare facilmente l’equilibrio e lo costringeva ad ondulare come
uno scarafaggio caduto sul dorso.
Egli s’alzò dalla sedia e accese
la pipa. Estrasse l’orologio da taschino ed impostò il cronometro su dieci
minuti, cioè la massima durata dell’incantesimo. Poiché aveva un po’ di tempo,
decise di recarsi alla toilette della taverna. Non la faceva da quella mattina
e gli ultimi avvenimenti avevano messo a dura prova la sua prostata. Quand’ebbe
finito, tornò in veranda con una lunga corda. Prima di tutto legò il cavaliere
che lo aveva assalito, passandogliela anche tra i denti. Poi eseguì un paio di
virate attorno ai suoi compari. Erano proprio brutti ceffi, ma brutti brutti,
quasi orridi, e puzzavano più di una stalla intera. Infine s’allungò fino alla
grande quercia del giardino e fissò la fune al suo tronco. Tornò a sedersi
tirando grandi boccate dalla pipa. Attese gli ultimi dieci secondi. Meno due,
uno…
Mastro Krot riprese subitamente
ad oscillare come una barca in tempesta. Il mercenario continuò per inerzia a
spostare la spada verso la gola del vecchio, ma per le costrizioni della corda
la lama s’arrestò e la forza del colpo strattonò i suoi denti e lo fece
ruzzolare a terra come una melanzana matura (non era sicuro che fosse la
metafora migliore, tuttavia fu l’unica che gli venne in mente). I compari
fecero per accorrere in suo aiuto, ma ruzzolarono anch’essi inciampando ad
avvolgendosi nella canapa.
I bambini scoppiarono in una
risata di sollievo ed acclamarono il vecchio ambulante come se fosse un eroe.
«Mamma» disse uno, «quando
divento anziano voglio essere come lui!»
«Mamma» esordì un altro «voglio
avere la sua barba!»
«Mamma» bofonchiò un innocente pargoletto,
«posso fumare la pipa?»
Le donne e gli uomini emisero un
sospiro frammisto però al terrore. Mastro Krot riuscì a rialzarsi e si diresse
verso il vecchio.
«Mastro Cial! Quello che ha fatto
è… sbalorditivo! Come ha potuto muoversi a quella velocità? Incredibile! Lei è
un potente stregone!»
Egli tirò un’ulteriore boccata e
rilasciò il fumo in cerchi concentrici. Gli tornò in mente il duro
addestramento presso le Grandi Cave. Un giorno, in allenamento, si era misurato
contro un guerriero agile e capace di sferrare calci e pugni ad una velocità
inaudita. «Concentrati.» gli aveva suggerito il Gran Maestro della Cave. Purtroppo
ogni volta che si concentrava non faceva altro che esporsi ancora di più alle
raffiche di sventole. Poi, tutt’a un tratto, era riuscito ad evocare un potere
strano, mai provato, con il quale aveva immobilizzato l’avversario, il tempo e
tutto il resto, a parte ovviamente il Gran Maestro delle Cave che se la rideva
dall’alto della sua superiorità. «Bravo, ben fatto! Ho sempre saputo ch’eri tu
il predestinato a cambiare il mondo!» Già… a cambiare il mondo. Una lacrima gli
rigò il viso, sfruttando le profonde rughe come canalette di scolo. Gli tornò
in mente quando, diverse decadi prima, aveva convinto il cavaliere Nero a
battersi contro il Signore Oscuro Senior. All’epoca era convinto che il
cavaliere Nero, l’eroe del Regno del Panino, incarnasse anche l’essenza del
magico Fischiatore, il leggendario guerriero che a detta delle profezie avrebbe
sconfitto l’ombra e riportato la luce. Ma si sbagliava, ahi quanto si
sbagliava! Dopo la tremenda sconfitta del cavaliere Nero, alle pendici del
monte Fatto, e dopo altri tentativi andati male, era ritornato alle Grandi Cave
chiedendo lumi al suo maestro. E questi, dall’alto della sua superiorità, gli
rispose di avergli sempre ripetuto che avrebbe cambiato il mondo, ma di non
avergli mai specificato se in meglio o in peggio. Una seconda lacrima discese
sul volto. Da quel momento aveva deciso di abbandonare la magia e
l’addestramento per scomparire dalla faccia del Regno, nascondendosi nelle
vesti di un povero ambulante. Tuttavia, la prepotenza dei mercenari che aveva
appena sconfitto aveva riacceso nel suo cuore la scintilla passionale e
combattiva che da anni s’era sopita.
Si rimise in piedi aggiustandosi
la barba. «Mastro Krot, cari amici della taverna. Tutti voi conoscete la
terribile leggenda del Cavaliere Nero, quell’eroe oggi dimenticato che ha
combattuto strenuamente contro il malvagio Signore Oscuro e che, per alcuni imprevisti, non ha conseguito la
vittoria. Ebbene, egli ha però continuato a lottare nel campo della gastronomia
fondando questa taverna dal rinomato carpaccio di cavallo, dimostrando di non
piegarsi a nessuno per nessun motivo. Come lui, non possiamo accettare le
prepotenze di Oscar, quel gradasso ciccione viziato che muove guerre mangiando
noccioline. Come lui, non dobbiamo arrenderci alla volontà sconsiderata del
tiranno, il cui unico scopo è mettere il Regno del Panino a ferro e fuoco. Come
lui… dobbiamo combattere!»
La folla che gli stava dinanzi
emise un urlo di convincimento. Mastro Krot saltellava felice come un canguro.
Tra i presenti, il vecchio intravide gli occhi di Lisa. Essi scintillarono
all’udire quelle parole di forza, s’infiammarono di passione e coraggio. Se
solo egli fosse stato più giovane… Scacciò il pensiero blasfemo e schiarì la
voce per una nuova filippica.
«Qui a Valle Tempesta i gregari
di Oscar sono ancora pochi e disorganizzati. Ci sono piccoli gruppi di soldati
e mercenari che scorrazzano per le nostre terre, infliggendo prepotenze alle
donne ed ai bambini. Avete visto quello di cui sono capace: insieme potremmo
sgominare queste bande di malvagi, confondere le forse di Oscar, e prepararci
all’attacco definitivo, dopo il quale ci riprenderemo la libertà!» ed alzò le
mani al cielo. Scrosciarono gli applausi della folla. I bambini vociarono
entusiasti.
«Sinite parvulos venire ad me!» pronunciò, e le donne allentarono il
contenimento dei pargoli che si slanciarono verso il vecchio barbuto.
Un uomo si fece largo tra la
folla e bloccò l’afflusso dei bimbi allargando le braccia come uno
spaventapasseri. S’avvicinò allo stregone e si rivolse ai compaesani,
indicandolo.
«Cari amici, quello che dice è
vero. Io però non mi fiderei. Quest’uomo, anche se un po’ invecchiato,
assomiglia a quel personaggio delle nostre leggende… non ricordo il nome…» e si
bloccò nel tentativo di rammentare.
«Ehi, mastro Tommaso ha ragione!»
sbottò un’anziana signora. Reggeva un libro di favole e fiabe per bambini,
aperto alla sezione “Le imprese del Cavaliere Nero”. Un altro popolano prese in
consegna il volume e scandì attentamente i volti dei personaggi ivi
rappresentati. Sulla sinistra v’era uno schizzo del Cavaliere Nero nel tragico momento
in cui aveva usato il magico fischietto di Pan; sulla destra, in opposizione,
c’era un abbozzo del signore Oscuro avvolto completamente dall’ombra. Al
centro, invece, si vedeva il ritratto minuzioso e realistico, quasi
fotografico, di un mago con bastone, cappello e barba, i cui tratti
assomigliavano a quelli del vecchio stregone che adesso parlava di libertà e di
battaglia.
Mastro Tommaso riprese la parola.
«Costui è il mago Cialtrone!» esclamò, e la sua esclamazione fu seguita da un
boato. Mastro Krot sbiancò in volto. «Cial… sta per Cialtrone! E io che pensavo
stesse per... Cial!»
«Io pensavo stesse per Cialda!»
gridò un altro.
«Io invece per Cialtrakunibunikitastrakatak,
il nome del mitico eroe della seconda Era!» gridò una signora.
«Non importa quello che è stato e
che abbiamo pensato» disse mastro Tommaso, «importa solo quello che faremo.
Signori, ci troviamo di fronte colui che ha permesso al signore Oscuro di
regnare ed alla sua dinastia di proseguire, colui che è responsabile della
sconfitta dell’unico eroe delle ultime Ere, il Cavaliere Nero, colui che nelle
nostre leggende tratteggiamo come il vero malvagio, più del signore Oscuro che,
alla fine, fa solo il suo lavoro di servo del Male. Io propongo di fargliela
pagare una volta per tutte e mettere fine alla sua inutile e venefica vita!»
Egli rimase imbambolato, sgomentato
dalla minacciosa piega che il suo favoloso discorso e la sua magnifica
incitazione avevano preso. Il popolo aveva reagito così in fretta, ch’egli non
si accorse del pericolo fino al momento in cui due carretti ricolmi di spade,
asce, pugnali, fionde e uova fresche non furono portati nel mezzo della folla.
Tutti i presenti s’affrettarono ad accaparrarsi un’arma; le fionde furono
lasciate ai bambini.
Egli si lanciò dietro il
cespuglio, raccolse la pallina rosa e se la diede a gambe levate mentre le uova
fresche piombavano ai lati come bombe e le pietre delle fionde contundevano le
sue membra stanche. Schioccò le dita e diventò invisibile. Osservò la folla
imbestialita passargli accanto senza vederlo e proseguire lungo la strada maestra
che conduceva al villaggio di Valle Tempesta. Si sedette sull’erba contemplando
il bosco. La sua reputazione era rovinata. La gente del Regno del Panino lo
odiava e lo avrebbe sempre odiato. Aveva commesso errori ai quali sarebbe stato
difficilissimo rimediare, se non impossibile. «Continuare a combattere o
ritornare nell’anonimato, nell’oblio? Questo è il mio dilemma.» si disse.
Il suo cuore, però, desiderava
combattere e mettere fine alle angherie dei malvagi. Doveva trovare il modo di
riorganizzare le forze, trovare nuovi alleati e perorare la causa.
Si produsse in un rumoroso
starnuto. La bella stagione sarebbe presto arrivata, e con essa una nuova
speranza. Così pensando, s’incamminò alla volta delle Grandi Cave.
Nessun commento:
Posta un commento