sabato 3 maggio 2014

Il dilemma del Mago

Leggi il primo capitolo delle Storie qui.
Leggi il secondo capitolo delle Storie qui.

Quell’inverno era il più lungo che egli ricordasse. Gli alberi erano ancora spogli, e il vento sferzava da mesi le superfici innevate e i poveri viandanti che si affacciavano alla strada maestra, costretti ad arrancare assieme alle loro giumente. La grande pianura biancheggiante che circondava la taverna del Cavallo Mangiato pareva la rappresentazione stessa della Morte; qualunque fosse il suo volto, quella natura prigioniera e tormentata ne incarnava l’anima.
Ma ciò che lo scoraggiava, più di tutti quei tangibili segni, era il fatto che la sua proverbiale allergia primaverile non s’era ancora manifestata. Si toccò il naso, provò a titillare il palato con la lingua, senza riuscire a strappare neanche uno starnuto. Non che la cosa gli dispiacesse: l’allergia lo costringeva sempre a cattività indesiderate, a rinchiudersi in luoghi claustrofobici riparati dai raggi del sole e dai pollini. Tuttavia, quell’apparente vantaggio personale dimostrava la lontananza della bella stagione.

Si portò le mani alla bocca e alitò un po’ di calore sulle sue dita anziane e rugose. Le prime luci dell’alba, colorate ma prive di energia alcuna, s’irradiavano dalla cima del monte Tempesta. Egli osservò la coltre di nebbia che avrebbe nascosto il pinnacolo ancora per poco. Nel giro di un’ora la valle intera sarebbe stata illuminata e la vita, seppur zoppicante per il lungo inverno, si sarebbe risvegliata.
Era ora di partire, ma preferì chiudere gli occhi e concedersi un altro attimo. «Chi dorme non piglia pesci.» gli ripeteva il padre. Non aveva mai capito come si potessero prendere pesci nella zona in cui era cresciuto, montuosa e senza ruscelli nel raggio di intere giornate di marcia. Ma aveva poca importanza, pensò, il messaggio del genitore era chiaro: intendeva che, se i pesci ci fossero stati, non li avrebbero mica pescati dormendo. Inoltre, nell’impossibilità di trovare i pesci, la stessa idea poteva estendersi alla selvaggina. Lepri, caprioli, camosci, volpi… nessun animale poteva essere cacciato nel sonno. Del resto, di cacciatori sonnambuli non aveva mai sentito parlare. Però aveva sentito di pescatori che s’addormentavano con la lenza penzolante. Vabbè, l’eccezione che confermava la regola. Ah! Com’era saggio suo padre! Nel villaggio in cui era cresciuto, un assembramento di quattro casupole all’ombra della Montagna Solitaria, nell’estremo Sud del mondo, tutti riconoscevano suo padre come il Sapiente, ed egli per validare la diceria s’era fatto crescere una barba lunghissima. Reggeva il consiglio del villaggio, elaborava la strategia di preservazione delle derrate alimentari, così che nessuno potesse soffrire la fame in nessun momento. Presenziava alle unioni tra i compaesani, augurando la felicità della coppia ed auspicando, ad ogni prima notte, che l’anno portasse un raccolto migliore per tutti. Lo ricordava, seduto alla veranda della casetta di famiglia, a giocare con la sua barba attorcigliandoci un dito e poi sbrogliandolo, metafora della vita che crea i problemi dai quali e nei quali occorre sapersi dimenare per ritrovare la libertà.
«Ah, com’era saggio mio padre!» esclamò, tirandosi ad un ramo gelido per alzarsi. Scosse il deretano, che per le asperità e il freddo del suolo s’era atrofizzato. Puntò di nuovo il monte Tempesta, maestoso oltre la nebbia. Si sentì come quella roccia: solido, capace di ergersi all’infinito, ma comunque soggetto alla nebbia di quei tempi bui. Rassettò il mantello, controllò che la sua barba, azzimata in onore e ricordo del padre, fosse presentabile, ed imboccò il sentiero che portava alla taverna del Cavallo Mangiato.
Come ogni giorno, la taverna pullulava di visitatori, per la maggior parte perdigiorno locali, tuttavia sempre più spesso si presentavano forestieri. Il Regno del Panino era in fermento, le forze magiche erano irrequiete e quelle militari si stavano riorganizzando. Qualcosa di terribile stava giungendo… le ombre si avvicinavano, silenziose, come sempre, pronte a colpire dopo aver creato una quiete apparente. Egli strinse i pugni. Rugosi e callosi, ma pieni di energia. Le vene gli si gonfiarono. Una forza sovrumana cominciò a scorrergli nel sangue, partendo dal cuore e lambendo ogni terminazione del suo corpo, avvolgendolo, proteggendolo, cavalcando ogni muscolo ed ogni tessuto, fino a provocargli un fastidioso prurito alla schiena che ruppe l’attimo. Tentò di grattarsi ma la flaccidità delle sue membra non glielo permise. «Devo fare più allungamento!» rimproverò a se stesso. Il fisioterapista gli aveva consigliato di eseguire una paio di esercizi ogni giorno appena sveglio, ma per pigrizia non lo aveva mai fatto. Mentre si contorceva nel vano tentativo di raggiungere l’epicentro del prurito con le unghie, passò l’oste della taverna.
«Buongiorno, mastro Cial!» lo salutò questi. Indossava una calzamaglia ed un panciotto tenuto stretto da una cintura di pelle, avviluppata dall’ingombrante pancia che straripava dal lato inferiore e superiore increspando le vesti.
«Buongiorno, mastro Krot.» rispose ruotando di trecentosessanta gradi con il gomito destro a contatto con la bocca. «Se non le dispiace mi piacerebbe approfittare degli ospiti della Taverna anche stamattina…»
«Si figuri, faccia pure mastro Cial. Anzi, dovrei ringraziarla, ci sono clienti che vengono apposta per giocare con lei.» Poi, accorgendosi che il vecchio barbuto continuava a dimenarsi come un’anguilla che non riesce a fare l’uovo, gli chiese «Sta bene?»
«Sono solo alle prese con un grattacapo, o meglio un gratta-spalla. Grazie del pensiero.» rispose. Proprio in quel momento riuscì a procurarsi un po’ di sollievo. «Ahhhh!»
L’oste aggrottò il sopracciglio e si congedò. «Le auguro buona giornata, mastro Cial.»
Egli ricambiò con un cenno del capo. Mastro Krot era un brav’uomo e gestiva la taverna del Cavallo Mangiato da più di vent’anni. Aveva una figlia, Lisa, che l’anno prima si era aggiudicata il premio di Miss Cavalla per la sua incredibile bellezza, i suoi occhi verdi e profondi messi in risalto dalla chioma nerissima, sempre raccolta in una lunga treccia. Svariate volte la figlia di Krot, che serviva come cameriera nell’attività del padre, era diventata il pretesto per le solite risse da taverna in cui un paio di bulli cercavano di conquistare il cuore della dama lanciandosi carpacci a destra e a manca.
Eh, la gioventù. Un’epoca per lui lontana, il cui ricordo gli straziava ogni volta il cuore. Quando aveva l’età di Lisa, un gruppo di uomini sconosciuti lo aveva strappato alla sua famiglia, con il consenso di suo padre, per portarlo nella regione delle Grandi Cave, dove era stato addestrato duramente. «Sei il predestinato» gli ripeteva il Gran Maestro delle Cave, «da te dipenderà il futuro del nostro mondo». Tutti gli avevano instillato quest’idea di essere l’eletto che doveva, senza possibilità di scelta, salvare il mondo conosciuto.
«Mastro Cial, insomma, vuole starsene tutto il giorno fra le nuvole, o cominciamo a giocare?» gli chiese un giovanotto ben vestito e con un paio di baffetti così curati da essere ridicoli.
“I baffi buffi”, pensò egli sorridendo. «Giochiamo allora!» esclamò, occupando uno dei tavolini della veranda per cui mastro Krot gli aveva concesso il permesso. Quando fu seduto assieme al giovanotto baffuto, portò la mano destra sotto la lunga tunica e ne estrasse tre coppe in legno di buona qualità, non molto capienti per la birra o l’idromele ma abbastanza per una dose letale di cianuro. Le poggiò sul tavolo capovolte. Con la mano sinistra, invece, indagò più a lungo fin quasi a toccarsi le parti basse e, di fronte all’imbarazzo del giovane baffuto, tirò fuori una pallina rosa e la lasciò rimbalzare sul legno accanto ai bicchieri.
«Prendila.» disse al giovanotto che, seppur restio e con una smorfia di ribrezzo, la strinse tra la punta dell’indice e quella del pollice.
«Mettila sotto una delle coppe e cominciamo.»
Il vecchio rimescolò i contenitori all’impazzata. Gli occhi del giovane s’incrociarono più volte, e più volte fu costretto a massaggiarsi le pupille e le tempie.
«Adesso scommetti.»
Il baffutello osservò attentamente la disposizione delle coppe sul tavolo. «Dieci carpacci su quella centrale!»
Il vecchio sollevò quella centrale rivelando il vuoto. «Mi dispiace, hai perso. Dieci carpacci! Riferisci a mastro Krot.»
L’altro s’alzò, intristito, e si congedò.
«Nessuno ha mai vinto! Allora, chi altri vuole tentare la sorte contro un povero, ancora abile vecchio?» domandò passando in rassegna i visi degli astanti.
«Io.» affermò un uomo robusto di bassa statura, che si fece avanti tra i cigolii dell’armatura e gli scricchiolii della pavimentazione della veranda. «Vediamo cosa riesco a fare contro… un povero vecchio!» aggiunse sogghignando. Alle sue spalle campeggiavano altri due ceffi brutti quanto lui e come lui protetti da armature massicce.
Egli sentì puzza di guai. Silenzioso, rimescolò le coppe nascondendo la pallina. «Avanti, faccia la sua puntata.»
Il cavaliere disse senza esitare «Dieci cadaveri sulla coppa a sinistra!»
Il vecchio si guardò attorno. La reazione degli ospiti della taverna fu di totale spaesamento. Riconobbe sui volti la paura. Nessuno di loro sapeva combattere: si trattava perlopiù di contadini e mercanti, innocua gente di Valle Tempesta. La guerra non aveva mai raggiunto quei luoghi bucolici e carpaccici, e la popolazione era inerme. Invece i tre cavalieri, con le loro armature, i corredi d’arme e i ghigni bestiali, sembravano affamati di sangue. Scrutò meglio lo stemma intagliato sugli spallacci: v’era tratteggiata la sagoma del Signore Oscuro Junior col pollice alzato ed un sorriso a trentadue denti, anzi trenta perché quelli del giudizio inferiori glieli avevano tolti. “Mercenari di Oscar”, si disse egli.
«Allora, vecchio! Ho detto dieci cadaveri sulla coppa a sinistra! Che aspetti??» urlò il cavaliere sbattendo le mani sul tavolo. Le donne della taverna abbracciarono i bambini per tenerli al sicuro.
«Non posso accettare.» rispose egli con calma. «Non posso scommettere dieci cadaveri, mi dispiace. Voi siete soltanto in tre, e nel caso in cui vincessi mi occorrerebbero altri sette gradassi come voi.» Fissò il cavaliere negli occhi ed intravide la rabbia incontrollata che veniva a galla.
A quell’udire, Mastro Krot accorse supplicando il robusto ospite di non dare ascolto alle parole di un vecchio svitato. Invece il cavaliere esplose in una fragorosa risata. Scambiò un cenno d’intesa coi compari e scaraventò mastro Krot a terra roteando il massiccio braccio. «E tu credi, oste, d’impietosirmi? Noi guerrieri dell’Oscuro non proviamo alcuna pietà!» Rovesciò il tavolo e le coppe. La pallina rosa rimbalzò per qualche metro fino a scomparire dietro un cespuglio. «E tu, vecchio, te la farò pagare per quello che hai detto! Io sono la legge qui!»
Egli rimase seduto e con lo sguardo fisso. «Non abbiate paura gente, sta solo scherzando. Mi pare di aver sentito dire che alla corte di Oscar tu faccia il buffone, non è vero?» gli chiese.
L’altro sguainò la spada e gli si avventò contro senza indugiare oltre. Fu allora ch’egli schioccò le dita fermando il tempo. La sagoma del cavaliere rimase a mezz’aria e così la spada. I volti di tutti si congelarono in un’espressione di ansia. Mastro Krot era immortalato nell’atto di rialzarsi dalla caduta: la pancia abbondante gli impediva di ritrovare facilmente l’equilibrio e lo costringeva ad ondulare come uno scarafaggio caduto sul dorso.
Egli s’alzò dalla sedia e accese la pipa. Estrasse l’orologio da taschino ed impostò il cronometro su dieci minuti, cioè la massima durata dell’incantesimo. Poiché aveva un po’ di tempo, decise di recarsi alla toilette della taverna. Non la faceva da quella mattina e gli ultimi avvenimenti avevano messo a dura prova la sua prostata. Quand’ebbe finito, tornò in veranda con una lunga corda. Prima di tutto legò il cavaliere che lo aveva assalito, passandogliela anche tra i denti. Poi eseguì un paio di virate attorno ai suoi compari. Erano proprio brutti ceffi, ma brutti brutti, quasi orridi, e puzzavano più di una stalla intera. Infine s’allungò fino alla grande quercia del giardino e fissò la fune al suo tronco. Tornò a sedersi tirando grandi boccate dalla pipa. Attese gli ultimi dieci secondi. Meno due, uno…
Mastro Krot riprese subitamente ad oscillare come una barca in tempesta. Il mercenario continuò per inerzia a spostare la spada verso la gola del vecchio, ma per le costrizioni della corda la lama s’arrestò e la forza del colpo strattonò i suoi denti e lo fece ruzzolare a terra come una melanzana matura (non era sicuro che fosse la metafora migliore, tuttavia fu l’unica che gli venne in mente). I compari fecero per accorrere in suo aiuto, ma ruzzolarono anch’essi inciampando ad avvolgendosi nella canapa.
I bambini scoppiarono in una risata di sollievo ed acclamarono il vecchio ambulante come se fosse un eroe.
«Mamma» disse uno, «quando divento anziano voglio essere come lui!»
«Mamma» esordì un altro «voglio avere la sua barba!»
«Mamma» bofonchiò un innocente pargoletto, «posso fumare la pipa?»
Le donne e gli uomini emisero un sospiro frammisto però al terrore. Mastro Krot riuscì a rialzarsi e si diresse verso il vecchio.
«Mastro Cial! Quello che ha fatto è… sbalorditivo! Come ha potuto muoversi a quella velocità? Incredibile! Lei è un potente stregone!»
Egli tirò un’ulteriore boccata e rilasciò il fumo in cerchi concentrici. Gli tornò in mente il duro addestramento presso le Grandi Cave. Un giorno, in allenamento, si era misurato contro un guerriero agile e capace di sferrare calci e pugni ad una velocità inaudita. «Concentrati.» gli aveva suggerito il Gran Maestro della Cave. Purtroppo ogni volta che si concentrava non faceva altro che esporsi ancora di più alle raffiche di sventole. Poi, tutt’a un tratto, era riuscito ad evocare un potere strano, mai provato, con il quale aveva immobilizzato l’avversario, il tempo e tutto il resto, a parte ovviamente il Gran Maestro delle Cave che se la rideva dall’alto della sua superiorità. «Bravo, ben fatto! Ho sempre saputo ch’eri tu il predestinato a cambiare il mondo!» Già… a cambiare il mondo. Una lacrima gli rigò il viso, sfruttando le profonde rughe come canalette di scolo. Gli tornò in mente quando, diverse decadi prima, aveva convinto il cavaliere Nero a battersi contro il Signore Oscuro Senior. All’epoca era convinto che il cavaliere Nero, l’eroe del Regno del Panino, incarnasse anche l’essenza del magico Fischiatore, il leggendario guerriero che a detta delle profezie avrebbe sconfitto l’ombra e riportato la luce. Ma si sbagliava, ahi quanto si sbagliava! Dopo la tremenda sconfitta del cavaliere Nero, alle pendici del monte Fatto, e dopo altri tentativi andati male, era ritornato alle Grandi Cave chiedendo lumi al suo maestro. E questi, dall’alto della sua superiorità, gli rispose di avergli sempre ripetuto che avrebbe cambiato il mondo, ma di non avergli mai specificato se in meglio o in peggio. Una seconda lacrima discese sul volto. Da quel momento aveva deciso di abbandonare la magia e l’addestramento per scomparire dalla faccia del Regno, nascondendosi nelle vesti di un povero ambulante. Tuttavia, la prepotenza dei mercenari che aveva appena sconfitto aveva riacceso nel suo cuore la scintilla passionale e combattiva che da anni s’era sopita.
Si rimise in piedi aggiustandosi la barba. «Mastro Krot, cari amici della taverna. Tutti voi conoscete la terribile leggenda del Cavaliere Nero, quell’eroe oggi dimenticato che ha combattuto strenuamente contro il malvagio Signore Oscuro e che, per alcuni imprevisti, non ha conseguito la vittoria. Ebbene, egli ha però continuato a lottare nel campo della gastronomia fondando questa taverna dal rinomato carpaccio di cavallo, dimostrando di non piegarsi a nessuno per nessun motivo. Come lui, non possiamo accettare le prepotenze di Oscar, quel gradasso ciccione viziato che muove guerre mangiando noccioline. Come lui, non dobbiamo arrenderci alla volontà sconsiderata del tiranno, il cui unico scopo è mettere il Regno del Panino a ferro e fuoco. Come lui… dobbiamo combattere!»
La folla che gli stava dinanzi emise un urlo di convincimento. Mastro Krot saltellava felice come un canguro. Tra i presenti, il vecchio intravide gli occhi di Lisa. Essi scintillarono all’udire quelle parole di forza, s’infiammarono di passione e coraggio. Se solo egli fosse stato più giovane… Scacciò il pensiero blasfemo e schiarì la voce per una nuova filippica.
«Qui a Valle Tempesta i gregari di Oscar sono ancora pochi e disorganizzati. Ci sono piccoli gruppi di soldati e mercenari che scorrazzano per le nostre terre, infliggendo prepotenze alle donne ed ai bambini. Avete visto quello di cui sono capace: insieme potremmo sgominare queste bande di malvagi, confondere le forse di Oscar, e prepararci all’attacco definitivo, dopo il quale ci riprenderemo la libertà!» ed alzò le mani al cielo. Scrosciarono gli applausi della folla. I bambini vociarono entusiasti.
«Sinite parvulos venire ad me!» pronunciò, e le donne allentarono il contenimento dei pargoli che si slanciarono verso il vecchio barbuto.
Un uomo si fece largo tra la folla e bloccò l’afflusso dei bimbi allargando le braccia come uno spaventapasseri. S’avvicinò allo stregone e si rivolse ai compaesani, indicandolo.
«Cari amici, quello che dice è vero. Io però non mi fiderei. Quest’uomo, anche se un po’ invecchiato, assomiglia a quel personaggio delle nostre leggende… non ricordo il nome…» e si bloccò nel tentativo di rammentare.
«Ehi, mastro Tommaso ha ragione!» sbottò un’anziana signora. Reggeva un libro di favole e fiabe per bambini, aperto alla sezione “Le imprese del Cavaliere Nero”. Un altro popolano prese in consegna il volume e scandì attentamente i volti dei personaggi ivi rappresentati. Sulla sinistra v’era uno schizzo del Cavaliere Nero nel tragico momento in cui aveva usato il magico fischietto di Pan; sulla destra, in opposizione, c’era un abbozzo del signore Oscuro avvolto completamente dall’ombra. Al centro, invece, si vedeva il ritratto minuzioso e realistico, quasi fotografico, di un mago con bastone, cappello e barba, i cui tratti assomigliavano a quelli del vecchio stregone che adesso parlava di libertà e di battaglia.
Mastro Tommaso riprese la parola. «Costui è il mago Cialtrone!» esclamò, e la sua esclamazione fu seguita da un boato. Mastro Krot sbiancò in volto. «Cial… sta per Cialtrone! E io che pensavo stesse per... Cial!»
«Io pensavo stesse per Cialda!» gridò un altro.
«Io invece per Cialtrakunibunikitastrakatak, il nome del mitico eroe della seconda Era!» gridò una signora.
«Non importa quello che è stato e che abbiamo pensato» disse mastro Tommaso, «importa solo quello che faremo. Signori, ci troviamo di fronte colui che ha permesso al signore Oscuro di regnare ed alla sua dinastia di proseguire, colui che è responsabile della sconfitta dell’unico eroe delle ultime Ere, il Cavaliere Nero, colui che nelle nostre leggende tratteggiamo come il vero malvagio, più del signore Oscuro che, alla fine, fa solo il suo lavoro di servo del Male. Io propongo di fargliela pagare una volta per tutte e mettere fine alla sua inutile e venefica vita!»
Egli rimase imbambolato, sgomentato dalla minacciosa piega che il suo favoloso discorso e la sua magnifica incitazione avevano preso. Il popolo aveva reagito così in fretta, ch’egli non si accorse del pericolo fino al momento in cui due carretti ricolmi di spade, asce, pugnali, fionde e uova fresche non furono portati nel mezzo della folla. Tutti i presenti s’affrettarono ad accaparrarsi un’arma; le fionde furono lasciate ai bambini.
Egli si lanciò dietro il cespuglio, raccolse la pallina rosa e se la diede a gambe levate mentre le uova fresche piombavano ai lati come bombe e le pietre delle fionde contundevano le sue membra stanche. Schioccò le dita e diventò invisibile. Osservò la folla imbestialita passargli accanto senza vederlo e proseguire lungo la strada maestra che conduceva al villaggio di Valle Tempesta. Si sedette sull’erba contemplando il bosco. La sua reputazione era rovinata. La gente del Regno del Panino lo odiava e lo avrebbe sempre odiato. Aveva commesso errori ai quali sarebbe stato difficilissimo rimediare, se non impossibile. «Continuare a combattere o ritornare nell’anonimato, nell’oblio? Questo è il mio dilemma.» si disse.
Il suo cuore, però, desiderava combattere e mettere fine alle angherie dei malvagi. Doveva trovare il modo di riorganizzare le forze, trovare nuovi alleati e perorare la causa.

Si produsse in un rumoroso starnuto. La bella stagione sarebbe presto arrivata, e con essa una nuova speranza. Così pensando, s’incamminò alla volta delle Grandi Cave.

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