La pioggia batteva forte sul villaggio ancora in fiamme. Un nutrito gruppo
di soldati lo aveva saccheggiato ancora una volta. Non c’erano state neppure
vittime, solo qualche casa incendiata, per incutere un po’ di sano terrore e
disperazione. Dopotutto chi poteva opporsi? Nessun guerriero è poi così
spavaldo una volta giunto al fronte e quei pochi che ci provarono erano morti
tre o quattro assalti fa. A quella legione, come alle precedenti, faceva comodo
lasciare tutti in vita, lasciare che coltivassero, nutrissero le loro bestie,
andassero a pesca e tagliassero legna. Lasciare che producessero. Tanto che
importava? erano circondati in quella piccola penisola, la battaglia si era
spinta verso nord lasciandoli in quello che ormai era pieno territorio nemico.
Dove sarebbero potuti scappare? il primo avamposto alleato non era distante ma
a separarli da esso c’era il fronte. Attraversarlo? impossibile. L’alternativa
era, dunque, sopravvivere, sopportare. Tagliare un po’ di legna per
ricostruire, nascondere cibo per resistere a quelle magre imposte. Sperare. E
non perché la speranza fosse l’ultima a morire, ma semplicemente perché non
c’era poi molto altro da fare.
Se non altro la natura, che fino a prima della guerra non era stata poi
tanto generosa, sembrava dalla loro parte e quando serviva pioggia, bagnava i
campi; se serviva legna, cresceva rigogliosa; carne? allontanava predatori e
calmava mari.
Era una questione di equilibrio. Un equilibrio che, per quanto si
sforzasse, il mondo non riusciva a mantenere. C’erano sempre guerre a devastare
popoli e arrecare sofferenze, e subito dopo lunghi periodi di benessere che
carestie o pesti non riuscivano ad arginare. Non si trattava di giustizia, o di
benessere diffuso, o di male comune. Era una questione di equilibrio. Un
equilibrio che, quel giorno, il mondo avrebbe iniziato a ripristinare.
Ai piedi di una montagna, nei pressi di un piccolo ruscello ingrossato
dalla pioggia, cadde un fulmine, poi un altro e ancora un altro. Una quercia fu
colpita e prese fuoco. Il tronco si abbatté sulla roccia, la chioma si spense
subito nelle acque. Poi, un forte vento diede vigore a quelle fiamme e spostò
la pioggia affinché non disturbasse. Il tronco si consumava veloce, la roccia
al di sotto era così rossa da ricordare lava. Il vento si calmò con la stessa
immediatezza con la quale era giunto e, ancora, un fulmine cadde e sembrò
essere eterno perché al suolo si divise in mille altri rami che, come dita
esperte, iniziarono a modellare. Infine, pioggia e frastuono lasciarono il
posto ad un raggio di sole, che lacerò le nubi come essa avrebbe lacerato le
carni. Appena nata, il ruscello la strappo alla sua culla e il calore che
emanava ne fece ribollire le acque fino a quando non si estinse nelle
profondità del mare.
«Arriverà con l’intento di sacrificarsi, proprio come è stato chiesto a te,
ma non lo farà senza combattere perché è nella sua natura fare di tutto per
sopravvivere.»
«Ma io non so combattere.»
«E non ti è stato chiesto di farlo. Ciò che devi fare è pescare e costruire:
ciò che sai fare meglio.»
L’uomo rimase in piedi sulla sua barca, guardò per un attimo gli altri
pescatori. Erano stanchi, avevano lavorato tutta la notte, sotto la pioggia,
per portare un po’ di cibo al villaggio appena saccheggiato, ma nelle reti il
pesce scarseggiava. Pensò a quello che la voce nella sua mente gli aveva detto.
Era difficile da accettare e non sarebbe stata neppure l’unica soluzione.
L’uomo non aveva figli, né moglie. I genitori erano morti da tempo. Dedicava la
sua vita a pescare e costruire barche per gli altri del villaggio, era ben
ricompensato per questo anche se negli ultimi tempi le cose erano andate storte
per via della guerra. Perché avrebbe dovuto? Forse un perché non era poi così
necessario, o forse si era reso conto che un senso alla vita non va cercato ma
semplicemente dato.
«Accetto.»
«Bene. Allora puoi presentarmi.»
«Non conosco il tuo nome.»
«E non lo ho, infatti. Sei il primo a brandirmi, dovrai darmene uno.»
L’uomo osservò la sua fattura. Un’asta nera frastagliata e tagliente in
ogni suo punto, tranne nell’impugnatura, perfettamente liscia. In cima due lame
azzurre, cristalline, si aprivano dall’asta che in quel punto era intarsiata
con ciò che sembrava argento o platino. Le lame non erano fissate o saldate,
erano parte di essa. Così come lo era la cuspide, anch’essa azzurra, con la
quale terminava.
«Questa è Kurab Niul, l’alabarda di zaffiro. E con essa ho stretto un
patto.»
Gli altri pescatori guardarono l’uomo, incerti. Poi uno accennò ad una
risata come a dargli del folle. Fu subito soffocata: un enorme bestia saltò
fuori dal mare, travolgendone la barca e trascinandolo nelle profondità delle
acque. Tutti i pescatori si affrettarono a prendere gli arpioni, il pesce tornò
alla carica. Aveva le sembianze di un tonno ma era molto più grande, otto,
forse dieci metri. Era veloce e resistente, le ferite causate dalle poche lance
che riuscivano a trafiggerlo erano paragonabili a punture di zanzara. I
pescatori erano terrorizzati, alcuni afferrarono i remi nel tentativo di
scappare. Il pesce attaccò ancora, questa volta caricando la barca sulla quale
era rimasto in piedi, impassibile, l’uomo con l’alabarda. Kurab Niul, il primo
dei suoi nomi, si fece leggera. Le lame iniziarono a brillare di una luce
tenue, azzurra, che calmò gli animi di tutti. L’uomo strinse la presa, si inarcò
all’indietro e la scagliò, come un arpione. Il lancio fu così poderoso da
fendere il mare lungo il tragitto, il pesce la vide arrivare e in quella luce
si rassegnò al suo destino. La cuspide penetrò nelle sue carni e in quel
preciso istante un fulmine cadde dal cielo ad intensificarne la forza. Il pesce
era fermo, galleggiava sul filo dell’acqua. L’alabarda conficcata nella testa.
L’uomo alzò il braccio, tese la mano verso l’arma, poi l’aprì. In un istante
l’alabarda lasciò la sua vittima e tornò ad essere brandita.
I pescatori restarono alcuni secondi attoniti, prima di rendersi conto che
quel tonno gigante stava affondando. Remarono rapidi verso la preda, lanciarono
reti per trattenerlo e ne arpionarono la bocca per traghettarlo a riva. Ci
vollero gli uomini più forti del villaggio per sollevarlo e un carro con
quattro cavalli per trasportarlo.
Il villaggio aveva cibo a sufficienza per i prossimi giorni. Ogni abitante
circondò l’uomo, lo ringraziò. Egli, col pugno ancora saldo sull’asta, batté
due volte il suolo per parlare. La gente interruppe il chiacchiericcio.
«Io ho fatto un patto e so che questa è casa nostra, so che abbiamo sudato
sangue su questa terra e non biasimerò coloro che vorranno restarci. Ma domani
avremo una nave sufficiente a trasportare ognuno di noi a nord, verso terre
sicure. La costruirò io stesso e chi vorrà offrirmi il suo aiuto porti una lama
affilata, una sega, o un martello: ci sarà tanta legna da modellare.»
L’uomo voltò le spalle al villaggio, poi un ragazzo ne interruppe il
cammino.
«Sei forte: mio padre mi ha detto che con quell’arma puoi far piovere
fulmini. Perché non restiamo e combattiamo il prossimo assalto? Vinceremo!»
«Combattere per sopravvivere era nella natura di quel pesce. Io so soltanto
pescare e costruire barche e quest’arma sarà con me solo per questo scopo.»
«Allora dalla a me! So brandire un bastone o una spada!»
L’uomo roteò l’alabarda, ne conficcò la punta nel terreno e allontanò la
mano. L’impugnatura svanì, immersa nella stessa trama tagliente e frastagliata
del resto dell’asta.
«Prendila, se ci riesci. Io non l’ho forgiata, non l’ho cercata. L’ho
semplicemente trovata nella mia rete. È lei che sceglie chi può brandirla e lo
scopo per cui esserlo.»
Il ragazzo tese timido la mano verso l’asta, poi capì.
«Prenderò chiodi e martello.»
Il sole stava per portare un nuovo giorno, gli abitanti avevano lavorato
instancabilmente tutta la notte, fermandosi a turno per godersi il fresco
pasto. L’uomo aveva abbattuto sei alberi, un colpo per ognuno, e l’alabarda
mutò in sega per tagliarne i rami e dividerne i tronchi, e in martello per
piegarli e unirli.
Dal villaggio arrivarono due carri pieni di paglia su cui dormire e cibo di
cui nutrirsi. Il viaggio non sarebbe durato che pochi giorni. Tutti si sarebbero
imbarcati, molti con la speranza, in futuro, di poter fare ritorno.
Poco dopo essere salpati, l’uomo andò a prua, guardò verso nord. Sembrò
annuire. Si girò verso gli altri.
«Kurab Niul non può avere un solo padrone e se sono bene e male i due poli
attorno ai quali questo mondo si raccoglie, allora essa servirà entrambi fino a
raggiungere il perfetto equilibrio. Come ho detto, ho fatto un patto. Lei ha
fatto la sua parte, ora tocca a me mantenerlo.»
L’uomo sospirò, chiuse gli occhi. L’alabarda si illuminò di quella luce
azzurra e tenue che ancora trasmise a tutti un senso di pace e sicurezza. Poi
avvolse l’uomo e aumentò di intensità, lasciando che il suo corpo svanisse
all’interno di essa.
Alcuni affermano di averne visto il volto, un’ultima volta, riflesso fra i
cristalli della lama più grande, prima che Kurab Niul si inabissasse
nuovamente.
:) lascia un po' di inquietudine addosso . . . E una domanda sul "chissà cosa gliel'ha fatta venire in mente, questa storia" . . .
RispondiEliminaOh quelli si so persi pure loro a furia di cercare quella minchia di spada di smeraldo. Almeno l'alabarda di zaffiro fa come la Montagna con Maometto e non la si tira troppo per le lunghe :P
RispondiElimina