lunedì 4 febbraio 2013

Kurab Niul - Prologo



La pioggia batteva forte sul villaggio ancora in fiamme. Un nutrito gruppo di soldati lo aveva saccheggiato ancora una volta. Non c’erano state neppure vittime, solo qualche casa incendiata, per incutere un po’ di sano terrore e disperazione. Dopotutto chi poteva opporsi? Nessun guerriero è poi così spavaldo una volta giunto al fronte e quei pochi che ci provarono erano morti tre o quattro assalti fa. A quella legione, come alle precedenti, faceva comodo lasciare tutti in vita, lasciare che coltivassero, nutrissero le loro bestie, andassero a pesca e tagliassero legna. Lasciare che producessero. Tanto che importava? erano circondati in quella piccola penisola, la battaglia si era spinta verso nord lasciandoli in quello che ormai era pieno territorio nemico. Dove sarebbero potuti scappare? il primo avamposto alleato non era distante ma a separarli da esso c’era il fronte. Attraversarlo? impossibile. L’alternativa era, dunque, sopravvivere, sopportare. Tagliare un po’ di legna per ricostruire, nascondere cibo per resistere a quelle magre imposte. Sperare. E non perché la speranza fosse l’ultima a morire, ma semplicemente perché non c’era poi molto altro da fare.

Se non altro la natura, che fino a prima della guerra non era stata poi tanto generosa, sembrava dalla loro parte e quando serviva pioggia, bagnava i campi; se serviva legna, cresceva rigogliosa; carne? allontanava predatori e calmava mari.
Era una questione di equilibrio. Un equilibrio che, per quanto si sforzasse, il mondo non riusciva a mantenere. C’erano sempre guerre a devastare popoli e arrecare sofferenze, e subito dopo lunghi periodi di benessere che carestie o pesti non riuscivano ad arginare. Non si trattava di giustizia, o di benessere diffuso, o di male comune. Era una questione di equilibrio. Un equilibrio che, quel giorno, il mondo avrebbe iniziato a ripristinare.
Ai piedi di una montagna, nei pressi di un piccolo ruscello ingrossato dalla pioggia, cadde un fulmine, poi un altro e ancora un altro. Una quercia fu colpita e prese fuoco. Il tronco si abbatté sulla roccia, la chioma si spense subito nelle acque. Poi, un forte vento diede vigore a quelle fiamme e spostò la pioggia affinché non disturbasse. Il tronco si consumava veloce, la roccia al di sotto era così rossa da ricordare lava. Il vento si calmò con la stessa immediatezza con la quale era giunto e, ancora, un fulmine cadde e sembrò essere eterno perché al suolo si divise in mille altri rami che, come dita esperte, iniziarono a modellare. Infine, pioggia e frastuono lasciarono il posto ad un raggio di sole, che lacerò le nubi come essa avrebbe lacerato le carni. Appena nata, il ruscello la strappo alla sua culla e il calore che emanava ne fece ribollire le acque fino a quando non si estinse nelle profondità del mare.

«Arriverà con l’intento di sacrificarsi, proprio come è stato chiesto a te, ma non lo farà senza combattere perché è nella sua natura fare di tutto per sopravvivere.»
«Ma io non so combattere.»
«E non ti è stato chiesto di farlo. Ciò che devi fare è pescare e costruire: ciò che sai fare meglio.»
L’uomo rimase in piedi sulla sua barca, guardò per un attimo gli altri pescatori. Erano stanchi, avevano lavorato tutta la notte, sotto la pioggia, per portare un po’ di cibo al villaggio appena saccheggiato, ma nelle reti il pesce scarseggiava. Pensò a quello che la voce nella sua mente gli aveva detto. Era difficile da accettare e non sarebbe stata neppure l’unica soluzione. L’uomo non aveva figli, né moglie. I genitori erano morti da tempo. Dedicava la sua vita a pescare e costruire barche per gli altri del villaggio, era ben ricompensato per questo anche se negli ultimi tempi le cose erano andate storte per via della guerra. Perché avrebbe dovuto? Forse un perché non era poi così necessario, o forse si era reso conto che un senso alla vita non va cercato ma semplicemente dato.
«Accetto.»
«Bene. Allora puoi presentarmi.»
«Non conosco il tuo nome.»
«E non lo ho, infatti. Sei il primo a brandirmi, dovrai darmene uno.»
L’uomo osservò la sua fattura. Un’asta nera frastagliata e tagliente in ogni suo punto, tranne nell’impugnatura, perfettamente liscia. In cima due lame azzurre, cristalline, si aprivano dall’asta che in quel punto era intarsiata con ciò che sembrava argento o platino. Le lame non erano fissate o saldate, erano parte di essa. Così come lo era la cuspide, anch’essa azzurra, con la quale terminava.
«Questa è Kurab Niul, l’alabarda di zaffiro. E con essa ho stretto un patto.»
Gli altri pescatori guardarono l’uomo, incerti. Poi uno accennò ad una risata come a dargli del folle. Fu subito soffocata: un enorme bestia saltò fuori dal mare, travolgendone la barca e trascinandolo nelle profondità delle acque. Tutti i pescatori si affrettarono a prendere gli arpioni, il pesce tornò alla carica. Aveva le sembianze di un tonno ma era molto più grande, otto, forse dieci metri. Era veloce e resistente, le ferite causate dalle poche lance che riuscivano a trafiggerlo erano paragonabili a punture di zanzara. I pescatori erano terrorizzati, alcuni afferrarono i remi nel tentativo di scappare. Il pesce attaccò ancora, questa volta caricando la barca sulla quale era rimasto in piedi, impassibile, l’uomo con l’alabarda. Kurab Niul, il primo dei suoi nomi, si fece leggera. Le lame iniziarono a brillare di una luce tenue, azzurra, che calmò gli animi di tutti. L’uomo strinse la presa, si inarcò all’indietro e la scagliò, come un arpione. Il lancio fu così poderoso da fendere il mare lungo il tragitto, il pesce la vide arrivare e in quella luce si rassegnò al suo destino. La cuspide penetrò nelle sue carni e in quel preciso istante un fulmine cadde dal cielo ad intensificarne la forza. Il pesce era fermo, galleggiava sul filo dell’acqua. L’alabarda conficcata nella testa. L’uomo alzò il braccio, tese la mano verso l’arma, poi l’aprì. In un istante l’alabarda lasciò la sua vittima e tornò ad essere brandita.
I pescatori restarono alcuni secondi attoniti, prima di rendersi conto che quel tonno gigante stava affondando. Remarono rapidi verso la preda, lanciarono reti per trattenerlo e ne arpionarono la bocca per traghettarlo a riva. Ci vollero gli uomini più forti del villaggio per sollevarlo e un carro con quattro cavalli per trasportarlo.
Il villaggio aveva cibo a sufficienza per i prossimi giorni. Ogni abitante circondò l’uomo, lo ringraziò. Egli, col pugno ancora saldo sull’asta, batté due volte il suolo per parlare. La gente interruppe il chiacchiericcio.
«Io ho fatto un patto e so che questa è casa nostra, so che abbiamo sudato sangue su questa terra e non biasimerò coloro che vorranno restarci. Ma domani avremo una nave sufficiente a trasportare ognuno di noi a nord, verso terre sicure. La costruirò io stesso e chi vorrà offrirmi il suo aiuto porti una lama affilata, una sega, o un martello: ci sarà tanta legna da modellare.»
L’uomo voltò le spalle al villaggio, poi un ragazzo ne interruppe il cammino.
«Sei forte: mio padre mi ha detto che con quell’arma puoi far piovere fulmini. Perché non restiamo e combattiamo il prossimo assalto? Vinceremo!»
«Combattere per sopravvivere era nella natura di quel pesce. Io so soltanto pescare e costruire barche e quest’arma sarà con me solo per questo scopo.»
«Allora dalla a me! So brandire un bastone o una spada!»
L’uomo roteò l’alabarda, ne conficcò la punta nel terreno e allontanò la mano. L’impugnatura svanì, immersa nella stessa trama tagliente e frastagliata del resto dell’asta.
«Prendila, se ci riesci. Io non l’ho forgiata, non l’ho cercata. L’ho semplicemente trovata nella mia rete. È lei che sceglie chi può brandirla e lo scopo per cui esserlo.»
Il ragazzo tese timido la mano verso l’asta, poi capì.
«Prenderò chiodi e martello.»

Il sole stava per portare un nuovo giorno, gli abitanti avevano lavorato instancabilmente tutta la notte, fermandosi a turno per godersi il fresco pasto. L’uomo aveva abbattuto sei alberi, un colpo per ognuno, e l’alabarda mutò in sega per tagliarne i rami e dividerne i tronchi, e in martello per piegarli e unirli.
Dal villaggio arrivarono due carri pieni di paglia su cui dormire e cibo di cui nutrirsi. Il viaggio non sarebbe durato che pochi giorni. Tutti si sarebbero imbarcati, molti con la speranza, in futuro, di poter fare ritorno.
Poco dopo essere salpati, l’uomo andò a prua, guardò verso nord. Sembrò annuire. Si girò verso gli altri.
«Kurab Niul non può avere un solo padrone e se sono bene e male i due poli attorno ai quali questo mondo si raccoglie, allora essa servirà entrambi fino a raggiungere il perfetto equilibrio. Come ho detto, ho fatto un patto. Lei ha fatto la sua parte, ora tocca a me mantenerlo.»
L’uomo sospirò, chiuse gli occhi. L’alabarda si illuminò di quella luce azzurra e tenue che ancora trasmise a tutti un senso di pace e sicurezza. Poi avvolse l’uomo e aumentò di intensità, lasciando che il suo corpo svanisse all’interno di essa.
Alcuni affermano di averne visto il volto, un’ultima volta, riflesso fra i cristalli della lama più grande, prima che Kurab Niul si inabissasse nuovamente.

2 commenti:

  1. :) lascia un po' di inquietudine addosso . . . E una domanda sul "chissà cosa gliel'ha fatta venire in mente, questa storia" . . .

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  2. Oh quelli si so persi pure loro a furia di cercare quella minchia di spada di smeraldo. Almeno l'alabarda di zaffiro fa come la Montagna con Maometto e non la si tira troppo per le lunghe :P

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